Per raccontare le storie servono le parole, e su questo non ci piove. Ma è anche vero che la storia di ognuno può essere raccontata attraverso alcune particolari parole. Quando le abbiamo sentite, o usate, per la prima volta. Quali ricordi riportano alla mente, quali sentimenti smuovono, cosa dicono di noi.
La parola di oggi è Dedizione.
Dedizione: sostantivo femminile, non a caso. Ha dentro di sé l’amore, il prendersi cura, la serietà, la coscienza. Fare qualcosa con dedizione significa provare a non trascurare nulla, perché la cosa a cui ci dedichiamo è per noi sommamente importante.
Mi ha stupita scoprire che “Dedizione” deriva dal latino dedĕre, che significa “arrendersi”. Pensavo che avesse un’etimologia comune con “Dedicarsi”, e invece no. Dedicarsi viene da dicere, e significa “consacrarsi”, è un’azione che si compie, non che si subisce. “Dedizione”, al contrario, comporta una capitolazione, una resa incondizionata, significa cedere la giurisdizione a qualcosa o a qualcuno. Se fosse un verbo e non un sostantivo, sarebbe un verbo passivo.
Eppure per me “Dedizione” è una parola quanto mai attiva. È la parola del certosino che compie il suo lavoro con pignoleria, della chioccia che difende i suoi pulcini, dell’artista che cesella la sua opera finché non è pienamente soddisfatto.
Questa parola a me fa venire in mente tre cose.
La prima volta che l’ho sentita non la ricordo più, è una di quelle parole che fanno parte del vocabolario base. Ma ricordo la prima volta in cui mi sono fermata a rifletterci su. Era nel brief di un lavoro su una nuova linea di profumi. Mi è sembrata particolarmente efficace in quel contesto, perché senza dubbio occorre dedizione per distillare essenze, discriminare tra sfumature evanescenti, miscelare, provare, attendere. Da allora la parola “Dedizione”, per me, profuma.
“Dedizione” mi fa venire in mente anche due persone incontrate in autobus.
Il primo era un signore di una certa età, dall’aria distinta. Capelli grigi e barba perfettamente curata, sedeva leggendo uno spartito. I suoi occhi scorrevano le note, e di certo nella sua mente si formava una musica che lui solo poteva sentire. Sembrava del tutto indifferente allo sferragliare dell’autobus, al vociare dei passeggeri, ai rumori distanti della strada, perché era impegnato ad ascoltare altro, magari una sinfonia di archi e ottoni e grancasse che riempiva tutto il suo altrove.
Lo guardavo, e immaginavo una vita armoniosa, composta di accordi, senza stonature. Una vita che scorreva perfettamente scandita in tempi non troppo frettolosi, talvolta allegri con brio ma più spesso solenni. L’incedere tranquillo di chi è pago di sé. Di certo la vita di una persona che conosce il significato della parola dedizione, e delle ricompense che ne derivano.
L’altra persona era anche lui un uomo anziano, molto più del precedente. A differenza del primo, di cui non sapevo nulla e avevo immaginato tutto, questo secondo signore mi raccontò la sua storia come a volte fanno i vecchi, in autobus. Tornava dal cimitero dove, come ogni giorno, era andato a trovare sua moglie. “Mia moglie era spagnola” mi raccontò. “L’ho portata via dal suo Paese, ma per lei questo posto non andava bene. Non si è mai sentita a casa, e non è riuscita a sopravvivere.”
Anche questa è dedizione. Per anni e anni, ogni giorno, andare a trovare una donna amata e perduta. E per anni e anni elaborare con meticolosa crudeltà il senso di colpa, rimuginare sul passato fino a scriverlo con parole di pietra. Perché ci si può applicare con dedizione anche al dolore.